Se mi avessero puntato una telecamera addosso ieri sera se ne sarebbero viste delle belle: espressioni di sorpresa, delusione, speranza, entusiasmo, paura, delirio , gioia e chi più ne ha più ne metta. Eh si, perché ieri le abbiamo vissute proprio tutte. E aggiungo anche un bel no comment sui “porco cane” su ogni occasione sprecata o andata semplicemente male.
Ma la cosa che mi tocca sempre di più è la mia convinzione. Eh certo, voi ridete, ma io ne sono quasi convinta che funziona. Sono convinta che quando mi escono quei “Dai Ambrì”, “Non mollate”, “Forza Ambrì, dai!” , “Grande Conz”, “Tira!” …, i giocatori mi ascoltano (?!?!) e danno il massimo. O forse è il Dio dell’hockey che mi ascolta. Sì, sicuramente è lui che mi ascolta e fa girare la partita.
Scherzi a parte deve esser uno spettacolo vederci “dal fuori”. Un turbinio di emozioni positive e negative, visi ed espressioni che dipingono prima tensione e poi liberazione, che si alternano per tutta la durata della partita, e continuano ancora dopo, quando i nostri occhi scrutano la Valascia e i suoi tifosi. Deve esser uno spettacolo come vedere Cereda alzare le braccia ed esultare quando a più di 15 minuti dalla fine della partita, e dopo aver rilasciato l’intervista, manda il suo segnale al pubblico ancora presente. Deve essere uno spettacolo come andare a (ri)giocarsela a Bienne martedì.
Uno spettacolo che nessuno si vuole perdere. Né chi affronterà la trasferta, né chi la vedrà sul divano di casa sua. Parliamoci chiaro: vedere l’hockey alla pista è sicuramente un’altra cosa. In trasferta poi, quando “se vieni in trasferta devi cantare” tutto è amplificato. Lì sei in 500 e devi valerne 6000! Lì non puoi mollare e rassegnarti. Lì hai un peso di un popolo dietro. Lì, con le bandiere davanti (!!!!).
Ma anche vedere la partita a casa non è che sia sempre semplice. La tensione da casa è come quella della pista, e quindi cominci a sbraitare contro il televisore pensando che quel grido arriva diritto fino ai giocatori. Non parliamone poi dei cuscini che finiscono in giro in tutta la stanza e del fatto che nessuno in quel momento può disturbarti. Perché “o guardi la partita o vai da un’altra parte”. E soprattutto non deve esserci nessuno indifferente. Perché “come fai ad essere indifferente che stiam giocando i playoff?”.
C’ è poi chi la partita la ascolta alla radio. E lì si che sulle nostre facce si dipinge il terrore più assoluto. Perché è lì, nelle cronache alla radio, che liberi tutta la tua fantasia, ma soprattutto il tuo pessimismo da tifoso dell’Ambrì. E allora ogni volta che il cronista alza il tono di voce tu ti immagini già Kubalik che “la mette”. Ma al tempo stesso quando le parole sono veloci e agitate tu già ti vedi la squadra avversaria nel tuo terzo con il suo attaccante più forte che scarterà tutti e insaccherà il disco in rete. E questo succede almeno ogni 20 secondi, perché la partita alla radio è tensione pura. Perché quando in realtà i nostri hanno già allontanato, tu alla radio sei ancora al punto nel quale il disco è in volo verso l’angolino della tua porta- che nemmeno il pallone di Holly e Benji andava così lentamente. E allora cominci a imprecare e disperarti finché la voce angelica di Lorenzo Boscolo ti informa che l’Ambrì è in attacco! La partita alla radio è “vintage” puro. Quel vintage ricco di storia che ti risveglia vecchie emozioni secondo dopo secondo. La partita alla radio è intramontabile, è come un buon whisky, vecchio ma con mille sfumature di sapori, come lo è l’Ambrì.
E allora che ci sia ancora Whisky o birra, e qualsiasi sia il vostro programma per martedì, sia che voi siate in pista, sul divano o attaccati ad una radiolina, gridatelo quel “Forza Ambrì” perché magari, qualcuno ci sente! Ne sono convinta!
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