Io, noi e l’Ambrì Piotta

(2006)

Una squadra di hockey, in fondo, niente di così importante. Eppure non mi sento di definirla così scarsamente, l’Ambrì Piotta non è come le altre, lei è il mio amore, e di grandi amori ce ne sono pochi nella vita, molto pochi, per non dire che sia l’unico. Non sminuiamo le cose, non si tratta del semplice vincere o perdere legato normalmente ad un gruppo sportivo, neanche della passione per lo sport che porta poi a seguire una squadra un po’ più delle altre. Questa è una relazione che dura una vita, un legame quasi morboso, e non sarebbe possibile se fosse solo una semplice squadra di disco su ghiaccio.

Per noi è una famiglia, un insieme di persone unite da un rapporto di affinità, provenienti da posti diversi, che parlano lingue diverse ma con la stessa passione. È un modo di divertirsi, di sfogarsi, di vivere.

Béh l’ho sempre detto che non tengo all’Ambrì per i risultati, che non ho cominciato ad essere una biancoblù per motivi geografici e neanche per il semplice fatto che mi hanno appioppato questa squadra piuttosto che un’altra. Il mio è stato un colpo di fulmine alla nascita e crescendo, al posto di affievolirsi, il mio legame è diventato sempre più saldo.

Siamo matti forse, malati, senza via di scampo. Abbiam fatto una scelta, non la più facile, perché volendo potevamo tifare ad una squadra che qualche volta qualcosa vince, una che non ci faceva soffrire così tanto. Ma la sofferenza è inversamente proporzionale alla gioia, quando si parla di lei; e la nostra passione va al di là dello sport, è una ragione di vita, un credo, una fede.

Inizialmente mi sono innamorata della storia, quella di un paesello di pochi abitanti con una squadra in serie A capace di attirare migliaia di persone alla pista, con pochi soldi, ma con un grande cuore. Quella storia che narra degli inizi difficili, dei primi derby, della prima coppa svizzera vinta nel ‘62, del primo straniero della NHL giunto in svizzera e del primo svizzero a varcare l’oceano. Quella che raccoglie centinaia di nomi importanti e non, ma dove spiccano i Celio. Quella che nasconde aneddoti come la camminata di Von Mentlen dopo un derby vinto o la vittoria della Continental Cup con le sue notti infuocate. La storia, quella che anno dopo anno invecchia ed è giunta ormai a 70 anni, con le sue rughe che rispettano la tradizione ma con l’anima giovane che tutti i tifosi rappresentano.

Il nostro destino ci obbliga ad essere combattuti tra passato e futuro, tra tradizione e innovazione, tra una valle e il mondo intero. Anno dopo anno, oltre agli avversari, abbiamo qualcos’altro a cui badare, nel rispetto di tutti quelli che amano l’Ambrì, perché unico. Noi abbiamo il dovere di considerare e rispettare il nostro trascorso e di adeguarci ai tempi che cambiano mantenendo quel qualcosa di nostrano che amiamo così tanto. Non ci interessa quello che dicono gli altri, noi vogliamo essere diversi, speciali, vogliamo permettere che ogni volta che i nostri scendono sul ghiaccio, assieme a loro ci siano quei primi uomini che giocavano con i maglioni di lana fatti dalle nonne. Siamo forse schiavi di un mito, ma lo adoriamo.

Da bambina mi sono innamorata di una voce, che svolgeva il ruolo di mediatore tra me e quello che succedeva alla pista. Io ero troppo piccola, probabilmente anche se fossi stata sugli spalti, non avrei capito niente di quello che mi succedeva attorno. Ma io con la mente ero li, sulla gradinata che non avevo mai visto, ma che mi immaginavo con i suoi volti e i suoi colori. E non ero sola, ma con altre centinaia di persone che, come me, avevano le orecchie attaccate a quell’aggeggio di metallo che trasmetteva quasi magicamente la cronaca della partita. Serata dopo serata, match dopo match li, sempre allo stesso posto, sempre allo stesso modo. Non potendo essere allo stadio, quello stratagemma era il mio modo di essere fedele, perché perdere una partita, per me, era come tradire.

Tradire, eh già. Questo è il sentimento che abbiamo quando non possiamo essere allo stadio, quando lasciamo la squadra li, da sola. A noi poco importa che ce ne siano altri 4000 pronti a sostenerla, noi non ci siamo e ci sentiamo in colpa, non ce ne facciamo una ragione, perché dovevamo essere li con loro, come se gli unici tifosi fossimo noi stessi. Per questo non ci preoccupiamo se dobbiamo prendere la macchina per fare centinaia di chilometri, se è freddo, se è scomodo stare in piedi 3 ore, se ci sono buone possibilità che perdiamo. Il nostro bisogno è quello di esserci, per noi, per la squadra, per l’Ambrì.

Quando ho potuto finalmente andare a vedere le partite dal vero, mi sono innamorata dell’ambiente, della pista ricolma di gente nonostante le temperature, dei canti della gioventù, della tribuna con i suoi personaggi a me completamente sconosciuti. Sagome che viste dalla curva sud sembrano tutte troppo composte, immobili, ma che si risvegliano quando la partita si fa tesa, quando i 5 uomini in pista hanno bisogno di tutti, ma proprio tutti. Mi sono innamorata de “la montanara”perché quando ho visto per la prima volta 6000 persone cantarla assieme a me, grandi e piccoli, ticinesi, tedeschi, francesi ed italiani un’emozione indescrivibile mi ha riempito il cuore. E ora, anni dopo, l’effetto è sempre lo stesso. Mi sono innamorata dei colori, del bianco e soprattutto del blu, tanto che non riesco più a trattarli come tutti gli altri, loro sono dell’Ambrì, poco importa il contesto in cui si trovano, loro appartengono alla mia squadra e basta.

L’Ambrì fa parte della nostra vita e non si limita solo a quelle poche ore alla pista; l’ambiente biancoblù è come l’aria che respiriamo tutti i giorni. Il nostro cuore non può battere senza l’emozione di vedere quei due colori sventolare. I nostri occhi sono legati alla vista di una sciarpa al collo di un nonno con il suo nipotino, di una macchina con l’autoadesivo “forza Ambrì”, di una fotografia che ritrae la Valascia. Le nostre amicizie ad una fede, basti pensare a quante volte il buon esito di una nuova conoscenza dipende dalla domanda :“tieni all’Ambrì o al Lugano?” o quanto ci vergogniamo se nella nostra famiglia c’è una pecora nera.. o meglio dire bianconera.

Naturalmente mi sono innamorata della Valascia, della sua scalinata, dei suoi baretti, della sua maestosità e del suo fascino. Chiamarla pista è poco, lei è un Tempio, è fredda, grigia, ma è la nostra meta, la nostra seconda casa. È un monumento, intoccabile, immobile, antico, è lei che racchiude tutto lo spirito di Ambrì. E ogni volta che ci vado, è come se fosse la prima, i miei occhi la scrutano da cima a fondo, quasi a cercare qualcosa di nuovo, qualcosa che fino ad allora mi era sfuggito. Mi son innamorata dei sorrisi della gente che lavora dietro le quinte, di quelli che stanno alla buvette, di quelli del fans shop, di tutti quelli che spendono del loro tempo, solo per permettere a questo fenomeno di sopravvivere. Persone che non ricevono niente in cambio se non il leggere la classifica e vedere che tra le 12 squadre del campionato svizzero ce n’è una piccola, chiamata Ambrì-Piotta.

Forse l’Ambrì ci fa rimanere un po’ bambini, con la sciarpa al collo, la maglietta biancoblù e gli occhi lucidi. Solo apparentemente la nostra età ci rende diversi, ma in fondo siamo i primi che ad una vittoria esplodiamo di gioia e ad una sconfitta ce ne rimaniamo in silenzio proprio come loro. Siamo adulti, sappiamo che nella vita ci sono cose più serie di una squadra di hockey, eppure ci rendiamo conto che se dovessimo elencare le 5 cose più importanti nella nostra vita, una sarebbe l’Ambrì. Ci vergogniamo di chiedere un autografo, o di avvicinare un giocatore, ma non possiamo farne a meno.

Crescendo mi sono innamorata dell’hockey, di questo gioco così stupendo che abbina velocità, grinta, schemi e capacità tecniche. Questo ha saldato definitivamente il mio legame con l’Ambrì per sempre, una relazione che niente e nessuno può mettere in discussione. Non posso più farne a meno, non c’è allenatore, giocatore, presidente, giornalista o risultato che può spezzare tutto questo; perché è un rapporto esclusivo tra me e lui e nessuno può mettersi in mezzo.

L’Ambrì va al di là di quello che è un semplice sport, forse racchiude tutti i significati di questa parola, dallo stare insieme alla competizione, dall’essere una opportunità per i ragazzi della valle a essere una realtà importante dell’hockey svizzero. Sostiene una valle, che senza quella piccola luce, sarebbe vuota.

Mi sono innamorata della squadra, un amore precario, instabile, che viene messo in discussione ogni anno, ma che contribuisce a rinvigorire il mio sentimento. Mi sono innamorata dei giocatori, tutti, nel bene e nel male, dai ticinesi che da anni giocano nella nostra squadra tramandando la tradizione, a quelli che sono arrivati in Leventina senza sapere dove andavano a finire. Di quelli che hanno imparato ad amarla e non se ne sono più andati e di quelli che sono rimasti solo per poche partite. Mi sono innamorata delle vittorie e delle sconfitte, del vincere partite impossibili e perdere le più facili. Mi sono innamorata dell’orgoglio, della rabbia, della gioia e del dolore.

Tanti volti sono passati da qui, ci hanno accompagnato in questi anni, ci hanno fatto affezionare o hanno alimentato le nostre discussioni, qualcuno è quasi diventato uno di noi. Ma i più fedeli siamo noi tifosi, siamo noi che per una vita rimaniamo vicini alla squadra, che ci siamo sempre, nel bene e nel male, che ci cibiamo di vittorie e sconfitte, che permettiamo a questo fenomeno di esistere perché ne facciamo parte.

Il mio amore ha 70 anni, ma non li dimostra. Nonostante tutte le battaglie é vivo e finché ci sarà passione, emozione e il disco su ghiaccio l’Ambrì continuerà a dire la sua, con quel pizzico di originalità, quasi stranezza, ma con quel cuore che batte per tutta una vita.

Noi saremo sempre qua, non ti lasceremo mai.

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